Il pm Catello Maresca: i beni confiscati, un’occasione persa per la Provincia di Caserta

Quando un Uomo delle Istituzioni fa il suo dovere è parte della storia. Perchè ha contribuito a scrivere la rinascita di una terra maledetta. Quando poi questo giovane uomo è uno che con la sua dedizione e professionalità è diventato uno dei pochi esempi da seguire, oltre alla Storia, è un uomo che entra nei cuori di chi quotidianamente, con sofferenza, tenta di andare avanti affrontando problemi endemici. Attualmente il pubblico ministero Catello Maresca è un magistrato in servizio alla Procura di Napoli e si occupa di combattere i reati nella pubblica amministrazione e di antiterrorismo. È uno che ha fatto tanto per la nostra terra. È entrato giovanissimo nella squadra alla direzione distrettuale antimafia di Napoli. Con il pool anticamorra ha contrastato per un decennio le attività criminali del clan dei casalesi. Migliaia di criminali inquisiti. Secoli e secoli di condanne per gli imputati nei processi in cui ha rappresentato la Pubblica Accusa. Un vero Uomo di Giustizia. Con il tono pacato e cortese che lo contraddistingue, con i suoi interrogatori e requisitorie continua ad essere la spina nel fianco di imputati eccellenti e dei principi del foro. Magistrato dei fatti e non da circolo mediatico, la fazione del superboss Michele Zagaria e sodali sono stati i suoi principali obiettivi. Accompagnato dai suoi angeli custodi che lo scortano per chiare ragioni di sicurezza non disdegna “confrontarsi” con la gente nelle ore extra lavorative, sottraendo tempo preziosissimo alla sua adorata famiglia. Non ha mai rinunciato per volontà. Se lo ha fatto perché costretto dallo spirito di servizio. Centinaia gli incontri pubblici a cui ha partecipato. Nelle scuole e tra i ragazzi soprattutto. Da poco ha deciso di mettersi in gioco anche nel sociale. Non solo impegno nelle aule dove si amministra la Giustizia. L’Associazione Arti e Mestieri ha sede a Palazzo Marigliano nel cuore del centro storico di Napoli promossa dall’imprenditore Rosario Bianco, patron di Rogiosi editore, e dal magistrato Catello Maresca nasce con lo scopo di avvicinare le giovani generazioni alle arti e ai mestieri della tradizione partenopea.

Beni confiscati sottratti allo strapotere delle mafie. Lo Stato quando vuole mostra i muscoli.

La questione dei beni confiscati è una questione molto molto complessa, è stata trascurata per molti anni. Personalmente ho iniziato ad occuparmene nel 2008-2009, avanzando delle proposte di riforma, avanzando delle idee su cui poi si è cominciato a ragionare 7-8 anni dopo.

Nell’estate scorsa il Senato ha licenziato il nuovo testo di riforma del codice antimafia…

Di recente c’è stata una rivoluzione nel sistema di gestione, una riforma normativa alla quale peraltro ho partecipato puntando a migliorare l’utilizzo dei beni confiscati.

Lo Stato si è impossessato di migliaia di beni immobili e aziende nel corso degli ultimi anni.

La questione è duplice. Per quanto riguarda gli immobili il problema principale è il tempo. Che ci sia un intervento pubblico o privato per me fa poca differenza nel momento in cui hai la possibilità di gestirli. La gestione dei beni dei mafiosi è complicata. Si tolgono dalle mani di persone che li hanno gestiti in un certo modo, c’è bisogno di una prospettiva e idee su come gestirli in maniera diversa, non fosse altro per la destinazione. Lo scopo è quello di restituirli ai cittadini. Però devi farlo subito, perché la prima cosa che succede sui beni immobili è che vengono vandalizzati.

Un patrimonio distrutto prima che finisca nelle mani dello Stato.

Essendo obbligati a fare una stima iniziale dei beni basata su un’analisi sullo stato di conservazione e dell’entità del bene, quando vengono consegnati vandalizzati significa dare al bene un valore diverso, spesso negativo. La prima cosa che noti attraversando le strade e le terre della provincia di Caserta ti accorgi che su molti beni confiscati mancano gli infissi. Da chi non si sa. Questi immobili vengono lasciati all’incuria e abbandonati. Il problema principale è legato ad un’iniziale forma di gestione che lo Stato non riesce ad assicurare. Non perché non vuole la tutela dei beni, ma solo perché quando ce ne siamo accorti, pochi anni fa, i beni già erano migliaia. Come si fa ad assicurare la vigilanza a migliaia di beni! È praticamente impossibile farlo fare alle forze dell’ordine.

Come si può reagire a questa cosa?

Un primo momento di analisi che noi dobbiamo affrontare è che cosa fare, soprattutto conservare il valore iniziale di questi beni. Arrivare alla confisca e poi alla vendita 8, 10 o 15 anni dopo, dipende dalla durata del processo dopo averli sottratti ai criminali, significa essere partiti da un valore iniziale ed essere arrivati ad un valore diverso. Arriviamo spesso a tentare di assegnare o vendere, presupposti principali, un bene con un valore negativo. Ti trovi, come accade, che nessuno lo vuole, o chi lo vuole aspetta i finanziamenti, spesso pubblici, che devono servire a recuperare quel bene. Talvolta si spende di più del valore della stima iniziale.

Con quale modalità si può riuscire ad incidere.

Bisogna capire quale è il costo sociale di questi beni. Il problema è tutto economico. Se tra l’utilità che ne deriva dal restituire un bene alla collettività e quello che la collettività può arrivare a spendere per ridargli un valore, ne vale la pena. Poi ci sono i beni simbolo, quelli che vanno sottratti e vanno impiegati a tutti i costi, perché restano il simbolo della vittoria dello Stato in un determinato territorio.

Non tutti i beni sono simbolici.

Ci sono tanti altri beni che non sono simboli, tanti garages, tanti piccoli immobili o particelle nei centri abitati, capannoni, tante strutture asservite ad attività industriali che non hanno questa funzione sociale che finiscono per diventare un costo per lo Stato. Perciò poi succede che non si riescono ad assegnare e a sfruttare. Soprattutto perché i Comuni non hanno spesso le risorse da impiegare. Le stesse associazioni spesso non sono disponibili. Affrontare spese per avere un immobile talvolta diventa una difficoltà o un problema serio. Il tempo è fondamentale, bisogna intervenire tempestivamente assegnandoli anche provvisoriamente, tecnicamente con una “destinazione anticipata”. Bisogna decidere subito, prima che vengano depredati, vandalizzati e resi inutilizzabili.

L’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati ha un ruolo importante in questa “storia”.

Se noi pensiamo all’amministrazione anticipata, talvolta di natura pubblica o pseudo pubblica, l’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati riesce, all’esito di procedure che probabilmente sono anche eccessivamente farraginose, a destinarli ad attività di pubblico interesse, come è stato fatto in Sicilia dove recentemente le hanno adibito a tamponare l’emergenza abitativa. Da subito bisogna avere le idee chiare. L’Agenzia ha un quadro chiaro di tutto quello che è sequestrato o confiscato o confiscabile. Il legislatore ha previsto nel 2010 questa struttura organizzata che sa come e dove intervenire. Prima dell’Agenzia c’era il Demanio, questi beni entravano nel calderone dei beni demaniali, perdendo quella connotazione particolare di essere sottratti alla criminalità organizzata, hanno ora un valore aggiunto che dovrebbe permettere di curarli di più.

Sembra capire che necessariamente bisogna “prendersi cura” di più i beni sottratti alle mafie.

Si deve capire meglio che cosa se ne può e che cosa se ne deve fare del singolo bene. Un’analisi seria deve individuare le peculiarità e l’uso che se ne deve fare del bene confiscato. Come a de esempio come fu proposto per il problema dei migranti, si potrebbero impegnarli in attività che devono avere un significato sociale più ampio. Molti potrebbero essere messi a reddito con il fitto o la vendita. Dobbiamo “curarci” dei beni confiscati. È questa l’idea di fondo.

Ci sono centinaia di beni non sfruttati e non assegnati…

Prendiamo ad esempio i terreni. Li vogliamo coltivare? Si deve prevedere una sezione specifica dell’Agenzia, incentivare le cooperative sociali, dare la possibilità di fare rete. Ad oggi non è ancora compiutamente sviluppata quella attività di gestione che potrebbe essere affidata all’Agenzia, che ha un senso non solo perché accompagna i custodi e i curatori di questi beni, ma anche perché ne immagina, dall’inizio, il possibile impiego utile per la collettività e soprattutto utile per lo Stato. Ma se l’Agenzia arriva dopo dieci anni in un’azienda bufalina dove sono morti tutti gli animali, o quel latte che si produce non viene acquistato da caseifici sempre dello Stato, significa che non si è fatto un buon lavoro.

Poi ci sono le attività economiche passate dalle mani criminali allo Stato.

Una storia leggermente diversa per la gestione delle attività d’impresa. Ci sono spesso problemi non chiaramente individuabili, i rapporti con i fornitori o lavoratori tenuti in nero per esempio. Per le aziende più o meno infiltrate dalla criminalità si tratta, spesso, anche di gestione che è più improntata ad una vocazione illegale che ad un’aspirazione di rispetto delle regole. La difficoltà dello Stato che interviene è quella di riportare in un regime legale un’attività che non lo era. Se non si ha un’idea chiara sulla loro destinazione succede come oggi, che il 90% o chiudono o falliscono. E questo è il fallimento dello Stato. Nella recente riforma c’è stato un cambio netto. Oggi si ha la possibilità di conoscere subito che fare dell’azienda e se è in grado di stare sul mercato. Un sistema intellettualmente onesto deve portare a decidere immediatamente se è il caso di impiegare tempo, strumenti e risorse dello Stato per proseguire o meno quell’attività o chiuderla. Nel caso positivo si va avanti. In quello negativo si deve avere il coraggio di scegliere delle strade alternative. Bisogna subito capire cosa conviene allo Stato.

Dunque il problema non è solo quello di togliere i beni ai mafiosi.

Il problema è soprattutto lo step successivo al sequestro o alla confisca. La prima parte ha funzionato benissimo, ne abbiamo tolti tanti negli ultimi anni. Bisogna praticare una linea di gestione chiara di questi beni. Attività sociali? Quante, come, dove. Tenendo tutto sotto controllo. C’è la necessità di far rispettare un impiego, una destinazione effettiva, un’utilità operativa sul territorio. Da parte dello Stato c’è una difficoltà nel trovare l’interlocutore istituzionale idoneo. L’Agenzia deve servire ad altro. Non solo a custodire e ad amministrare questi beni, deve servire strategicamente a dettare le linee di utilizzo di questi beni. Se non si ha una strategia non si fa un servizio oculato.

E in provincia di Caserta come stanno le cose?

C’ho lavorato per dieci anni, oggi la provincia di Caserta dovrebbe essere ricchissima. Gran parte dei beni hanno perso il loro valore.

La tua esperienza da magistrato cosa ti ha insegnato?

Ad essere concreto. Cercare soluzioni pratiche ed operative. Purtroppo alla fine diventa duro accettare che uno arresta tante persone, contribuisce a sequestrare quindi a portare nell’alveo della legalità e a ridare alla collettività tanti beni, però poi questo risultato stenti a vederlo riflesso sul territorio. Rifarei tutto quello che ho fatto. Ho avuto la fortuna di partecipare ad un gruppo di lavoro straordinario che ha raggiunto dei risultati importanti.

Nel 2008 la “strage di San Gennaro” accende i riflettori su Terra di Lavoro.

Purtroppo, ahinoi, ogni tanto la sensibilità istituzionale va sollecitata da eventi tragici. La nostra storia è costellata da esempi del genere, basti pensare alle stragi di Palermo del ’92. Dopo l’intervento giudiziario c’è da costruire sulle macerie del dominio del clan dei casalesi. I beni confiscati, l’attività culturale, c’è la necessità di una mentalità nuova. I beni confiscati sono quelli che si vedono. Lo Stato ha l’obbligo di assicurare che diventino simboli di una rinascita e l’inizio di una crescita culturale e sociale che credo debba inevitabilmente avvenire.