Don Peppe Diana sacrificato sull’altare del silenzio

Un “efferato crimine” compiuto da “spietati assassini” fu il commento a freddo del Pontefice Giovanni Paolo II dopo la notizia dell’assassinio di don Peppe Diana nella sagrestia della Chiesa di San Nicola a Casal di Principe la mattina del 19 marzo del 1994. Un omicidio eccellente, opera di mani esperte. Il clan aveva alzato la posta. Quel piombo che fece stramazzare al suolo don Diana aveva un peso specifico diverso. Il clan dei casalesi era all’apice della guerra interna: gli equilibri potevano essere ristabiliti solo con un omicidio che doveva scuotere le coscienze di chi era restato a guardare, inerme, uno spettacolo indecoroso. E la parte soccombente ci riuscì. Il gruppo di Giuseppe Quadrano, legato a Enzo De Falco, ‘o fuggiasco, la vecchia guardia stragista del clan dei Mazzoni legati ad Antonio Bardellino, mise a segno il colpo. Era la mattina di San Giuseppe. La primavera era alle porte. Le elezioni politiche avevano portato in trionfo poco tempo prima il sogno di rivincita anticomunista del berlusconismo. I soldi della ricostruzione post terremoto aveva irrorato con migliaia di miliardi le casse del clan. I traffici illeciti dei rifiuti a avevano iniziato a mietere le prime vittime. La procura antimafia stava affilando i coltelli con la prima inchiesta che portò all’operazione “Spartacus”. Si affacciavano in letteratura giudiziaria i fiumi di verbali delle dichiarazioni del pentito calcestruzzaro Carmine Schiavone. Cemento, appalti, metanizzazione, scamazzi, estorsioni, monnezza. Il clan era impegnato su tutti i fronti. Eppure la notizia dell’assassinio di don Giuseppe Diana destò unanime sdegno non soltanto a Casal di Principe, ma anche nei centri vicini, dove il religioso era particolarmente noto per la sua intensa attività pastorale. Ma don Peppe Diana è stato un martire del silenzio. Lo Stato per quarant’anni è stato assente. Ha abdicato al suo ruolo di controllo. I clan avevano stretto un patto con la politica: l’uno serviva all’altro e viceversa. La Chiesa era complice: quando si trattava di mafiosi non ha mai fatto la differenza, non si è mai opposta alla celebrazione di qualcosa che riguardava mafiosi o i loro stretti e larghi congiunti. Anzi andavano a braccetto parecchi don Abbondio nell’Agro aversano. Tranne rarissime eccezioni. Don Peppe Diana nel Natale del 1991 aveva firmato, insieme ai parroci di altri comuni della Diocesi, un documento contro la camorra “Per amore del mio popolo” nel quale si invitavano, tra l’altro, i sacerdoti “a parlar chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”. Nel testo, che suscitò clamore a livello ecclesiale ed istituzionale, la camorra veniva paragonata ad “una forma di terrorismo che incute paura”, in grado di “imporre le sue leggi”. “I camorristi – scrivevano nel 1991 don Diana e i suoi confratelli – impongono con la violenza regole inaccettabili: estorsioni, tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio di droga, scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone”. Secondo i parroci, la forte presenza della malavita organizzata andava ricondotta a “precise responsabilità politiche. È ormai chiaro – affermavano – che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli”. Tre mesi prima della pubblicazione del documento, il Consiglio comunale di Casal di Principe fu sciolto per infiltrazioni camorristiche. Il 30 settembre 1991, infatti, su proposta dell’allora ministro dell’Interno Scotti, il presidente della repubblica Francesco Cossiga decise lo scioglimento del consiglio comunale, che era stato eletto tre anni prima. Nella relazione che accompagnava il decreto di scioglimento, risultava che “a Casal di Principe hanno sede le organizzazioni camorristiche più temibili tra cui quella capeggiata da Francesco Schiavone detto ‘Sandokan’ e da Francesco Bidognetti, detto ‘Cicciotto e mezzanotte’”. E proprio i collegamenti tra queste cosche ed alcuni consiglieri comunali portò allo scioglimento del consiglio. In particolare, l’allora assessore Gaetano Corvino risultò essere proprietario di un immobile nel quale i carabinieri di Caserta fecero irruzione sorprendendo un “summit” camorristico. Compromesso con la camorra risultò anche il consigliere comunale Alfonso Ferraiolo che nella sua abitazione aveva ricavato un “sofisticato” nascondiglio per più persone: venne denunciato dai carabinieri il primo luglio 1988 per favoreggiamento personale nei confronti di latitanti appartenenti al clan di Antonio Bardellino. Ferraiolo era, inoltre, il proprietario dell’automobile a bordo della quale il 18 maggio 1989 venne arrestato in Francia il latitante Francesco Schiavone. Un parente stretto di quest’ultimo, Francesco Schiavone, consigliere comunale ed ex sindaco, era stato imputato per interesse privato in atti di ufficio e favoreggiamento personale nell’ambito delle indagini sull’omicidio di un nipote Antonio Bardellino. Un altro episodio riportato nella relazione, che prova la “compromissione della imparzialità degli organi e del buon andamento della attività amministrativa”, riguardava l’allora sindaco Alessandro Diana. Per Diana scattò una denuncia per omissione di atti di ufficio e favoreggiamento personale in seguito al rilascio, da parte del comune di Casal di Principe, all’allora latitante Mario Iovine di una carta d’identità valida per l’espatrio. Il pluripregiudicato Iovine, capo dell’omonimo clan camorristico, fu successivamente ucciso in Portogallo il 6 marzo 1991. Ultimo episodio riportato nella relazione proviene dall’indagine avviata dalla procura di Santa Maria Capua Vetere sull’attività amministrativa del comune. In un provvedimento, in data 10 luglio 1986, il pm rilevava che “al di là della regolarità formale delle gare di appalto dei pubblici lavori sussistono non lievi sospetti ed indizi di un inserimento generalizzato di associazioni camorristiche nella gestione dei predetti lavori”. Il martire don Peppino non è morto invano. Dal 19 marzo del ‘94 ad oggi certamente è aumentata la consapevolezza di vivere in una terra martoriata dove c’è da “costruire” in un deserto senza sabbia. I mandanti e esecutori dell’omicidio sono stati assicurati alla Giustizia. Intanto a Casal di Principe la gente non può bere o usare l’acqua del pozzo perché risulta avvelenata. Si devono abbattere all’incirca 1500 unità immobiliari perché abusive, c’è l’80% di disoccupazione giovanile, e un terzo della popolazione di sesso maschile ha pregiudizi di natura penale. Questa è l’eredità di don Diana? Una vergogna per chi ammanta legalità. Oggi è diventata un business. Il passaporto per entrare nell’affare da persone perbene e uscirne con le mani sporche di fango.