Fiction a parte il fenomeno mafioso nella terra natia dei superboss che hanno dato vita al famigerato clan dei casalesi è una cosa seria. Ha determinato buna parte del mercato, ha orientato elezioni e consenso elettorale, ha costruito infrastrutture, strade e scuole. È stato, ed è ancora in parte, determinante nelle scelte di natura economica di un’imprenditoria che, muovendosi nel substrato tra il lecito e l’illecito, ha fatto affari d’oro. Una cosa è certa: la mafia casalese non uccide più nel casertano. Ciò non vuol dire che sia definitivamente sconfitta e che rappresenti “un ricordo del passato”. Anzi. Un tempo era tutto o quasi nelle loro mani. Oggi è tuttora “buono” lo stato di salute del clan, così come quello delle altre cosche presenti nel casertano. Estorsioni, gioco d’azzardo, centri scommesse, distribuzione dei prodotti agroalimentari, traffico di stupefacenti, prostituzione gli ambiti in cui muove la scure il clan. I casalesi sono l’organizzazione che più di tutte ha monopolizzato i business illeciti nel territorio campano. Come un camaleonte ha dato vita alla sua metamorfosi in camorra economica, secondo quello che viene definito il “teorema Zagaria”, dal nome del boss dei casalesi che più di ogni altro ha incarnato l’anima imprenditoriale e affaristica del clan. La fotografia delle organizzazioni criminali che si spartiscono Terra di Lavoro è contenuta nella annuale relazione della Direzione Nazionale Antimafia, che bolla la “quiete apparente” caratterizzata nell’ultimo anno dall’assenza di omicidi di camorra specie nel casertano, più che all’azione repressiva dello Stato, ad una consapevole “scelta strategica di lungo respiro, tesa a governare, in modo diverso, ma (sempre) intenso e profondo, il territorio”. Caserta, dunque, spiegano gli esperti della Direzione Nazionale Antimafia, non è improvvisamente diventata come Bolzano o Helsinki, dove l’assenza di delitti di sangue di matrice mafiosa è il segno di un territorio al riparo da certi condizionamenti. E i casalesi continuano a rappresentare un “unicum” nel panorama campano: “un clan – osserva la relazione – il cui reale baricentro, anche durante i periodi durante i quali erano in corso feroci regolamenti di conti sia interni che verso l’esterno, è rappresentato non tanto dalla costellazione dai gruppi di fuoco del sodalizio, ma da una confederazione di imprese edili, commerciali, o, comunque, operanti nel settore terziario, sostenute dai capitali e dalla forza d’intimidazione mafiosa”. La zona grigia la fa da padrona, una camorra in “doppiopetto” dunque, fatta da “imprenditori-camorristi” che in virtù di storici rapporti di vicinanza e di affari con i boss oggi detenuti, sono divenuti i reali capi del sodalizio. Una camorra che si muove sotto traccia, che preferisce corrompere i pubblici ufficiali più che intimidirli, che ricorre alla violenza come extrema ratio, lontana da quella classica della lupara o del kalashnikov, che neanche gli arresti di boss e gregari sembrano scalfire più di tanto; “specie a livello di manovalanza – riporta la relazione – il clan casalese è stato in grado di rimpiazzare con nuove leve gli affiliati detenuti. Allo stato, sotto un profilo numerico, le associazioni di tipo mafioso operanti nel casertano e in parte del Sannio possono contare su di un numero di affiliati attivi sul territorio sicuramente inferiore rispetto agli anni 80/90, ma di tutto rispetto e, comunque, stabile rispetto ad un recente passato”. Ma c’è di più: i casalesi, non solo “sono pienamente in grado di curare il loro core business, cioè gli affari nei settori economici degli appalti, dei pubblici servizi, con particolare predilezione al ciclo integrato dei rifiuti; affari, questi ultimi, sempre più agevolati da collegamenti stretti con la politica e l’imprenditoria”. Si sono anche registrati, nell’ultimo periodo, rilevanti progressi nella gestione di ulteriori attività criminali, “come le scommesse on line, business gestito spesso in sinergia con altre organizzazioni di tipo mafioso”. Inoltre il clan dei casalesi, “novità assoluta per quanto li riguarda, si sono inseriti direttamente nella gestione di ‘piazze di spaccio’, mutuando un modello organizzativo tipico delle organizzazioni camorriste napoletane”. La relazione della Dna evidenzia anche la presenza di organizzazione criminali straniere, specie sul litorale domitio e nel comune di Castel Volturno, come quella nigeriana degli “Eye”, dei Black Cats e dei Viking, responsabili soprattutto del traffico di droga e del racket della prostituzione. Per i Comuni a nord di Napoli, come Afragola, Frattaminore, Frattamaggiore, Cardito, Crispano, Casoria, Caivano, la Dna spiega che ancora oggi, dopo trent’anni, le indagini anticamorra continuano ad essere incentrate “sulla ricostruzione dell’intreccio d’interessi, di natura criminale, economica e politica, che ruota intorno alla famiglia Moccia, dalla forte vocazione imprenditoriale”. Altri comuni “osservati speciali” sono Marano e Giugliano: nel primo opera il clan Polverino, il cui core business resta sempre il traffico internazionale di stupefacenti, prevalentemente cannabinoidi di norma importati via mare dal nord-Africa, via Spagna, fino alle nostre coste; un’attività i cui enormi proventi vengono riciclati nel settore edile. A Giugliano sono presenti da decenni i Mallardo, bravi a tessere alleanze, come quelle con i clan napoletani dei Contini e dei Licciardi o con la famiglia Bidognetti del clan dei Casalesi; ma a differenza di quest’ultimi, nel clan Mallardo i collaboratori di giustizia si contano sulla punta delle dita. La cosca inoltre ha riciclato parte dei guadagni fuori Regione, in particolare nel Basso Lazio.